
La Legge del più forte
rubrica mensile a cura di Luca Picotti
“There is credible evidence that leads me to believe that (1) Nippon Steel Corporation, a corporation organized under the laws of Japan (Nippon Steel); (2) Nippon Steel North America, Inc., a New York corporation (Nippon Steel NA); and (3) 2023 Merger Subsidiary, Inc., a Delaware corporation (together with Nippon Steel and Nippon Steel NA, the Purchasers), through the proposed acquisition by the Purchasers of United States Steel Corporation, a Delaware corporation (U.S. Steel), might take action that threatens to impair the national security of the United States”
Il 3 gennaio 2025 il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha posto il veto sull’acquisizione, del valore di quasi 15 miliardi, di United States Steel, storica impresa americana attiva nella produzione di acciaio, da parte di Nippon Steel, colosso giapponese del settore. Questa decisione rappresenta l’esito, in parte atteso in parte no, di un’operazione lanciata a fine dicembre 2023 e le cui sorti si sono sin da subito intrecciate con la politica interna, i territori, i sindacati e soprattutto la campagna elettorale. Trattasi, forse, del caso più controverso di utilizzo da parte di Washington della normativa sul foreign direct investment screening.
Negli Stati Uniti gli investimenti esteri, qualora abbiano ad oggetto società o infrastrutture strategiche, sono sottoposti ad un rigido scrutinio da parte del CFIUS (Committee on Foreign Investments in the United States), un comitato interdipartimentale a cui compete l’istruttoria delle operazioni sulla base di una normativa che ha origine nel Defence Production Act del 1950, sec. 721, e che è andata poi via via consolidandosi tramite diversi interventi, in particolare con l’Exon-Florio Amendment del 1988, il FINSA (Foreign Investment and National Security Act) del 2007 e il FIRRMA (Foreign Investment Risk Review Modernization Act) del 2018, in un’ottica di potenziamento ed estensione del raggio di controllo, aspetto che ha peraltro caratterizzato le normative protettive di tutti i paesi in generale.
A seguito dell’istruttoria, il CFIUS può, alternativamente, concedere il nullaosta all’operazione; condizionarlo all’adozione di determinate misure volte a mitigare i rischi per la sicurezza nazionale; non assumere conclusioni e rimettere ogni decisione al Presidente; proporre al Presidente l’esercizio dei poteri – solo a lui concessi – di sospensione o divieto dell’operazione. Negli ultimi due casi, la decisione sarà affidata ad un Executive Order del Presidente.
Tracciata questa breve panoramica, torniamo alla vicenda Nippon Steel e US Steel. Per rendere l’idea di quanto la decisione di porre il veto sia stata a dir poco dirompente, è necessario ricordare che:
1) Innanzitutto, l’operazione era desiderata tanto dall’investitore, Nippon Steel, quanto dalla società target, US Steel, dal momento che quest’ultima versava e versa in condizioni critiche e, pertanto, avrebbe probabilmente beneficiato dal deal in termini economici, produttivi e occupazionali.
2) Inoltre, l’operazione avrebbe dato vita ad un operatore globale e competitivo, di stampo occidentale, in un settore in cui la concorrenza cinese è molto forte.
3) Poi, non bisogna dimenticare che era dal 2020 che negli Stati Uniti non si registravano veti. La ragione? Una preliminare attenzione sulla decisione stessa di lanciare certi investimenti; un utilizzo frequente delle condizioni e dei mitigation agreements per allineare gli investimenti alle esigenze di sicurezza nazionale senza così doverli bloccare; la prassi di rinunciare direttamente all’operazione quando, a seguito dei dialoghi con il CFIUS, appare evidente (perché il comitato lo fa capire) che vi sono poche probabilità di un nulla osta.
4) Peraltro, i precedenti sei veti (sette se contiamo quello di Bush negli anni ’90), riguardavano praticamente tutti società cinesi (a parte il peculiare caso Broadcom-Qualcomm), non investitori di paesi alleati.
5) Infine, occorre anche evidenziare che nel settore dell’acciaio non si sono mai registrate simili interferenze, avendo i casi più eclatanti riguardato di fatto settori tecnologici (dati, semiconduttori, 5G etc.) o aree in prossimità di basi militari.
Alla luce di tutti questi elementi, è lecito domandarsi come mai non si sia riusciti a trovare un accordo, magari tramite mitigation agreements, tale da permettere il buon esito dell’operazione, considerate le necessità di US Steel, la provenienza dell’investitore da un paese alleato e il fatto che l’acciaio non è mai stato un settore propriamente strategico. Si pensi, tra l’altro, che le società hanno proposto ben quattro National Security Agreements (NSA), da ultimo il 30 dicembre 2024, a pochi giorni dalla decisione finale, con la previsione di diverse garanzie: ad esempio, che la capacità produttiva negli stabilimenti di US Steel in Pennsylvania, Arkansas, Alabama, Indiana e Texas non sarebbe stata ridotta per dieci anni senza l’approvazione del CFIUS; o che il CFIUS avrebbe potuto mandare un proprio membro, in qualità di osservatore, nel board di US Steel per controllare la compliance rispetto all’NSA.
È difficile, pertanto, non rimanere perplessi davanti a questa decisione, perché a differenza che negli altri casi, qui la politica estera – e di riflesso anche i profili più delicati di national security – non ha avuto un ruolo da protagonista, dal momento che l’investitore era giapponese, ossia proveniente da un paese alleato degli Stati Uniti, a livello economico e militare, anche in funzione anti-cinese. Non vi erano quindi ragioni di ostilità di politica estera nei confronti dell’investitore, fattore solitamente rilevante nelle normative sugli investimenti. Qui la questione ha avuto sin da subito connotati di mera politica interna, anche e soprattutto per la coincidenza con l’appuntamento elettorale. Dall’ostilità del potente sindacato United Steelworkers (USW) alla politica territoriale in uno Swing State, la Pennsylvania, passando per la radicata gelosia per la nazionalità del controllo di una storica impresa americana, evidente e alimentata dalle varie dichiarazioni politiche. Un combinato che ha reso difficile per il presidente Biden decidere prima delle elezioni, tanto che il CFIUS ha prolungato la fase di review per posticipare la determinazione finale a dopo il 5 novembre 2024. Ma non è bastato. Anche per questo la decisione lascia ancora più perplessi: un Presidente dimissionario avrebbe potuto avere maggiore sensibilità verso i costi economici (la realtà industriale in crisi di US Steel), reputazionali (la forzatura arbitraria delle normative protettive in una logica politica tale da danneggiare l’affidamento, la certezza giuridica e il libero mercato) e politici (i rapporti con l’alleato giapponese) di un veto. Anche perché, quale sia la minaccia dell’investimento sulla national security, non è dato saperlo. Si è ipotizzata la rilevanza della materia prima dell’acciaio in questa fase storica, in tutto il suo ciclo, soprattutto per gli utilizzi in ambito militare. Una lettura però poco convincente.
Va da sé che ormai, a quanto pare, era stato aperto un vaso di pandora di promesse, ostilità, vanti per la proprietà orgogliosamente americana, tale da rendere il veto l’unica opzione coerente per il Presidente Biden e la sua politica. Senza pensare al danno, però, per il sistema nel suo complesso.
Le parti, sin dal principio decise ad andare avanti e che non si sono fermate nemmeno in sede di trattative difficoltose con il CFIUS (attraverso, ad esempio, la rinuncia), hanno optato per la via giudiziaria, impugnando, da un lato, la decisione di bloccare l’operazione, e avviando dall’altro una parallela causa contro il CEO di Cleveland-Cliffs, impresa concorrente che aveva provato a lanciare una offerta per acquisire US Steel ma che era risultata nettamente più bassa di quella di Nippon Steel, e il leader dell’USW, per pratiche scorrette volte a fare saltare il deal.
Quanto qui ci interessa è soprattutto la prima iniziativa. Difatti, in tema di sindacato giurisdizionale delle decisioni presidenziali in materia di investimenti esteri diretti, il precedente giurisprudenziale ancora valido è quello della Corte della Columbia nel caso Ralls-Terna. Nel marzo 2012 la società cinese Ralls Corporation acquistò da Terna, senza notifica al Cfius, partecipazioni in quattro aziende americane in relazione a dei progetti di impianti di turbine a vento per costruire un parco eolico nell’Oregon. A giugno il CFIUS avviò una istruttoria, dalla quale emerse che alcuni impianti si trovavano in prossimità di spazi aerei utilizzati dalla US Navy per il suo Naval Weapons Systems Training Facility, circostanza che si valutò essere una minaccia per la sicurezza nazionale. Il 28 settembre 2012 Obama bloccò l’operazione. Ralls decise di impugnare le misure del CFIUS e poi l’EO del Presidente. Le conclusioni della Corte si possono riassumere in queste parole del giudice Jackson, indicative della assoluta discrezionalità con cui vengono esercitati i poteri speciali:
“Non c’è nulla in questo statuto [cioè la disposizione Exon-Florio], che conferisce al presidente una discrezionalità assoluta e non sindacabile nel proibire una covered transaction, che possa far nascere un’aspettativa a che una particolare transazione verrà approvata, tanto meno un’aspettativa che si erga al livello di un diritto che giustifichi la protezione del giusto processo ai sensi della Costituzione […] Lo statuto in questione non offre un beneficio né crea un qualche tipo di diritto a un beneficio – semplicemente autorizza il presidente a impedire che una transazione prosegua. Inoltre, l’argomentazione di Ralls secondo cui quest’ultima aveva un interesse ad acquisire la proprietà non regge, perché la decisione del presidente di proibire o meno la transazione è del tutto discrezionale”.
È proprio alla luce di tale giurisprudenza che l’iniziativa di Nippon Steel e US Steel appare non in salita, ma di più. Per quanto l’insussistenza di reali preoccupazioni di sicurezza nazionale risulti abbastanza palese, ciò non toglie che il sindacato del giudice, dinnanzi alla decisione politica presidenziale, tenda a ridursi sino quasi a scomparire. Non è un caso che le parti, nel comunicato del 6 gennaio sull’avvio delle cause legali, abbiano insistito soprattutto sulle irregolarità e violazioni di carattere procedurale (contradditorio, tempi, garanzie) in sede di istruttoria del CFIUS: proprio perché, se nel merito la possibilità di vincere appare remota, sul fronte procedurale quantomeno il sindacato è un po’ più ampio.
Nippon Steel – US Steel diventerà un caso di scuola. Un intreccio di diritto, politica e sicurezza nazionale, in cui un’operazione da 15 miliardi è saltata per ragioni sostanzialmente di politica interna. Il contezioso avviato si preannuncia altrettanto interessante e, anch’esso, sarà destinato a fare giurisprudenza in materia di sindacato sulle decisioni politiche giustificate da ragioni di sicurezza nazionale.