La Legge del più forte
rubrica mensile a cura di Luca Picotti
La privatizzazione di Telecom.
Nella letteratura sulle privatizzazioni italiane, la vicenda di Telecom rappresenta, assieme a quella di Autostrade, un caso di scuola di cessione fallimentare. Senza volere trascurare alcuni profili critici cumulati in anni di gestione pubblica, la società nel 1998, al momento della privatizzazione, si trovava comunque ad essere la quarta in Italia per fatturato e la prima per valore aggiunto, capace di competere con gli altri grandi player europei. La successiva storia è un susseguirsi di operazioni a debito e passaggi di controllo, nella cornice di un progressivo declino esemplificativo non solo della assenza di strategia con cui si è arrivati alla privatizzazione – finalizzata sostanzialmente a fare cassa per ridurre il debito del paese – ma anche dell’inadeguatezza dell’imprenditoria privata italiana, che non è stata in grado di valorizzare la società con una politica aziendale di lungo termine. Dopo una offerta pubblica di vendita che non trovò grande riscontro nei principali gruppi privati del paese, arrivò la celebre offerta pubblica di acquisto di Colannino e soci, annunciata nel 1999 e promossa secondo la formula del leveraged buy out, con il risultato di caricare Telecom di debiti per ripagare l’investimento. Nel 2001 il controllo passò a Pirelli e successivamente nel 2007 a Telco attraverso una cordata di banche italiane e la spagnola Telefònica. Nel mentre, la società, priva ormai di una strategia di sviluppo, perdeva posizioni nelle classifiche. Un esempio di privatizzazione fallimentare, a differenza di altre formule che invece hanno funzionato, come quella dello “Stato azionista”, presente nelle maggiori società come Eni, Enel, Leonardo o Fincantieri, ove il controllo pubblico, attraverso una partecipazione di maggioranza relativa, si accompagna alla presenza di investitori privati attenti ad una gestione più efficiente, oltre che spesso a regole di Borsa finalizzate alla trasparenza e alla tutela del mercato.
Per tornare alla vicenda di Telecom, dopo i diversi passaggi di testimone si arriva così al 2015. Da questo momento, la storia della società si intreccerà con le mire francesi e poi quelle americane. Nel mezzo, la centralità dello strumento giuridico del Golden Power, introdotto nel 2012 e operativo dal 2014.
La scalata di Vivendi e il golden power a sorpresa del 2017.
La società quotata francese Vivendi, operante nel settore delle comunicazioni, è entrata nel capitale di Tim nel giugno 2015 e, da quel momento, ha incrementato progressivamente la propria partecipazione sino a detenere, nel dicembre 2016, una quota del 23,9% circa del capitale sociale; parallelamente, dal dicembre 2015 la governance di Tim è stata gradualmente modificata, fino all’assemblea del 4 maggio 2017, dove è stato rinnovato il consiglio di amministrazione con una maggioranza dei componenti (10 su 15) tratta dalla lista presentata da Vivendi. In seguito, con un comunicato stampa del 27 luglio 2017, pubblicato sul proprio sito Internet, Tim rendeva noto che il Consiglio di amministrazione della società aveva preso atto dell’inizio dell’attività di “direzione e coordinamento” da parte del socio di maggioranza Vivendi; conseguentemente, annunciava il conferimento al Presidente De Puyfontaine di tutte le deleghe tranne quelle relative alla funzione di sicurezza e quelle relative alla società Telecom Italia Sparkle, affidate ad interim al Vice Presidente Recchi.
A quel tempo, la normativa golden power si componeva di due articoli principali: l’art. 1, relativo alle operazioni nel campo della difesa e della sicurezza, attivabile anche nei confronti di soggetti europei; l’art. 2, relativo alle operazioni nel campo dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni, attivabile, nel caso di acquisizione di partecipazioni, solo nei confronti di soggetti extra-europei.
Nel 2017, tra la primavera e l’autunno, i rapporti con i francesi sono tesi, anche a causa delle trattative per l’operazione tra Fincantieri e Chantiers de l’Atlantique, incrinate poi dall’improvvisa nazionalizzazione di Stx da parte dello Stato francese. Nello stesso periodo, il governo italiano pone peraltro il primo veto della normativa golden power proprio ad un investitore francese, Altran, che voleva acquisire Next Ast, attiva nel settore della difesa e in particolare nella produzione di software di gestione dei missili balistici e del controllo del traffico aereo. La scalata di Vivendi viene quindi vista con ostilità. Tant’è che il governo, in seguito ai mutamenti nella governance di Tim, decide che, in un modo o nell’altro, il golden power vada applicato. Anche a costo di operare non poche forzature.
Dal momento che non era pervenuta alcuna notifica ai sensi del d.l. 21/2012, né in occasione della circolazione delle partecipazioni azionarie, né in relazione al mutato assetto di direzione e coordinamento, il Ministro dello sviluppo economico di allora si adoperò per chiedere al Gruppo di coordinamento di procedere con una immediata istruttoria al fine di verificare la sussistenza degli obblighi di notifica. L’inizio dell’istruttoria fu comunicato alle due società con provvedimento del 5 agosto 2017. Il procedimento, che è stato accompagnato da una accesa dialettica nel merito, si è concluso il 28 settembre 2017, rilevando nei confronti delle società coinvolte i due seguenti obblighi: in capo a Vivendi, l’obbligo di notifica, ai sensi dell’articolo 1, comma 5, del d.l. 21/2012, dell’acquisizione di partecipazioni in Tim, che ha portato la società francese a detenere azioni in misura superiore alle soglie indicate dal comma 5; in capo a Tim, l’obbligo di notifica, ai sensi dell’articolo 2, comma 2, del d.l. 21/2012, dell’acquisto da parte di Vivendi del controllo e della disponibilità, a partire dal 4 maggio 2017, degli attivi della società Tim, ai sensi del citato comma 2.
Come si è arrivati a queste conclusioni?
L’art. 2, comma 5, del d.l. 21/2012 prevedeva che nel caso di acquisizioni di partecipazioni in società aventi attivi nel settore delle telecomunicazioni, il golden power potesse essere applicato solo se fosse stato raggiunto il controllo della società e unicamente nei confronti di soggetti extraeuropei. Nel caso di Tim-Vivendi, non solo si parlava di “direzione e coordinamento” anziché di “controllo”, ma in ogni caso anche se vi fosse stato il controllo i poteri speciali non si sarebbero potuti applicare in quanto società europea. Cosa ha fatto allora il governo? Ha considerato Tim una impresa strategica per la difesa e sicurezza nazionale, a cui il golden power si poteva esercitare anche verso soggetti comunitari. E l’ha fatto in ragione del controllo di Tim su Telecom Sparkle, proprietaria di oltre cinquecentomila chilometri di cavi sottomarini nell’area mediterranea, e su Telsy Elettronica e Telecomunicazioni S.p.a., fornitrice di software e strumentazioni avanzate per le comunicazioni criptate. In questo modo, ha sostanzialmente superato la previsione normativa volta a garantire la libertà di investimento per i soggetti europei. Non solo: ha poi giocato ulteriormente al rialzo, ritenendo il golden power applicabile anche ai sensi del comma 2 dell’art. 2, approfittando dell’ambiguità del dettato normativo, ove si fa riferimento a delibere della società che abbiano come effetto il trasferimento del controllo degli attivi strategici. Ma qui non vi era stata alcuna delibera di questo genere, circostanza ammessa dallo stesso Ministero dell’Interno nel proprio parere, che ha ritenuto applicabile il golden power pur in mancanza “di elementi documentali certi in odine […] all’adozione, da parte della società in questione, di delibere modificative della titolarità o del controllo, relativamente ai settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni (ex art. 2 d.l. n. 21/2012)”.
Il governo italiano è così riuscito a imporre a Tim e Vivendi una serie di condizioni all’operazione, alcune anche incisive, come la nomina di un consiglio di sicurezza da coinvolgere nelle cessioni degli asset strategici, o la redazione di un piano di security, prescrizioni di continuità aziendale e diversi obblighi informativi. In altre parole: dettato normativo o meno, l’ingresso dei francesi di Vivendi andava supervisionato. Certo, è innegabile la rilevanza di Telsy e Sparkle, considerato l’oggetto della loro attività, spesso classificata, per la sicurezza e difesa nazionale. Ma si è trattato comunque di una forzata applicazione indiretta della disciplina, di fatto aggirata facendo perno sull’ambiguità del dettato normativo e sulla scusa del controllo da parte di Tim delle due società.
Una vicenda che va letta nella cornice della atavica rivalità italo-francese e del contesto del 2017. Il governo ha così esercitato i poteri del golden power a sorpresa, in modo unilaterale, per rimodulare le mire di Vivendi perimetrandone il raggio d’azione, tanto che, da un lato, vi è stata una pesante sanzione a Tim (quasi 75 milioni per non avere notificato l’operazione), dall’altro i francesi di Vivendi, per niente contenti dell’intervento governativo, hanno avviato un lungo contenzioso amministrativo contro il provvedimento di esercizio dei poteri speciali (e imposizione delle condizioni), arrivato in secondo grado al Consiglio di Stato con una sentenza che ha dato ragione al governo (Cons. Stato 5 luglio 2023 n. 6575).
La cessione della rete agli americani e il golden power collaborativo del 2024.
Nel 2024 la rete di Tim viene ceduta agli americani del fondo Kohlberg Kravis Roberts & Co. L.P. (Kkr), attraverso una complessa operazione, del valore fino ad un massimo di 22 miliardi, che ha visto la cessione di NetCo a Kkr, mediante il conferimento in FiberCop (società controllata al 58% da Tim) del ramo d’azienda di Tim che comprende l’infrastruttura di rete fissa e le attività wholesale, con successiva acquisizione dell’intero capitale di FiberCop da parte di Optics BidCo, società controllata da Kkr. A gennaio 2024 il governo ha esercitato il golden power tramite condizioni e prescrizioni. Un intervento atteso, frutto di un dialogo tra le parti e il governo, accolto dagli interessati senza problemi, come si evince anche dal comunicato di Tim del 17 gennaio: “Il provvedimento autorizzativo, con il quale il Consiglio dei Ministri ha esercitato i poteri speciali nella sola forma delle prescrizioni, ha fatto propri gli impegni presentati nel corso del procedimento. Si tratta di impegni ritenuti dal Governo pienamente idonei a garantire la tutela degli interessi strategici connessi agli asset oggetto dell’operazione”.
Per quanto concerne l’operazione: trattasi di una svendita di un asset strategico? Un favore agli americani e un torto ai francesi? Una misura di politica aziendale che snellisce la società alleggerendola dai debiti e indirizzandola verso la formula di fornitore di servizi per consumatori?
Se è vero che la vendita della rete di Tim ad un fondo americano risulta un’operazione quantomeno discutibile, dato che trattasi di un asset indubbiamente strategico, va però al contempo sottolineato come vi siano stati diversi accorgimenti, nonché tutele, insiti nella italianità di ultima istanza della società, ossia nel fatto che, al netto della nazionalità dei soci, la società rimane di diritto italiano e sotto la giurisdizione italiana.
Innanzitutto, il Ministero dell’economia e delle finanze sarà presente nella Netco utilizzata per l’operazione con una quota non irrilevante, ossia circa il 16%, partecipazione che consente diverse iniziative a livello societario. Dopodiché, non bisogna dimenticare che il Golden Power, seppure nella sola forma delle specifiche prescrizioni, è stato utilizzato per la tutela degli interessi strategici. In modo non troppo dissimile da quanto già avvenuto nel 2017 ai tempi della scalata di Vivendi, o di quanto avvenuto nel 2023 con il patto parasociale di Pirelli, il governo pare (i provvedimenti non sono pubblici) avere posto dei paletti nel tentativo di ricondurre le decisioni sugli asset strategici al socio italiano. In questo senso, come ormai sempre più frequentemente nelle società di interesse pubblico, ci si trova dinnanzi ad una partecipazione di maggioranza degli investitori stranieri (in questo caso, Kkr, a cui si aggiungono il fondo sovrano Adia di Abu Dhabi e il fondo pensione canadese Ccpib), limitata però, nelle decisioni fondamentali, da quantomeno una condivisione con il socio di minoranza domestico. Infine, sempre per quanto concerne la cautela dello Stato italiano nell’avallare l’operazione, si ricorda che dalla stessa è stata esclusa Sparkle, gioiello strategico di Tim e tra le ragioni principali dell’utilizzo dei poteri speciali nel 2017 verso i francesi. Nell’operazione Tim-Kkr, Sparkle non è stata compresa e, anzi, proprio in ragione della sua delicatezza, sono in atto trattative per una sua cessione al Mef: in sostanza, affidarla direttamente al pubblico.
Tim tra Italia, Francia e Stati Uniti.
Risulta evidente la differenza tra il 2017 e il 2024, tra Francia e Stati Uniti: nel primo caso il Golden Power è stato utilizzato in modo unilaterale, quasi a sorpresa e per ostacolare la scalata di Vivendi, tanto che quest’ultima ha impugnato il provvedimento, pur senza successo; nel secondo caso, l’intera operazione è stata modellata con l’avallo tacito del governo, sì che le condizioni poi imposte a gennaio 2024 sono state accolte dalle parti senza problemi. Chi invece non ha apprezzato l’operazione sono stati proprio i francesi di Vivendi, che dopo gli ingenti investimenti in Tim hanno visto la rete ceduta agli americani. In qualità di socio di maggioranza relativa hanno pure avviato un contenzioso innanzi al Tribunale di Milano, sostenendo, tra le altre, l’illegittimità della delibera del Consiglio di amministrazione che ha approvato la proposta di Kkr, sull’assunto che l’operazione di cessione della rete avrebbe modificato l’oggetto sociale della società e, dunque, qualsivoglia delibera in tale senso sarebbe dovuta passare per l’assemblea straordinaria. È curioso però che, a quanto risulta, non abbiano chiesto la sospensione cautelare: sicché, nel mentre il deal con gli americani si è perfezionato il primo luglio 2024 e, dunque, pare piuttosto difficile ora tornare indietro. Oltre ad eventuali tentativi di azioni di responsabilità contro gli amministratori, ai francesi rimane ben poco. Se non iniziare a disinvestire.
Il dossier Telecom è uno spaccato in cui si intrecciano capitalismo italiano, diritto, politica, rivalità italo-francese e contraddizioni in seno all’Unione europea, investitori statunitensi, normative protettive sempre più centrali come il Golden Power, l’eredità della stagione delle privatizzazioni. Un caso da manuale. Nel mentre, nella nuova vita di Tim la partita continua con il contenzioso innanzi al Tribunale di Milano, mentre gli americani festeggiano.