La Legge del più forte
rubrica mensile a cura di Luca Picotti
Premessa.
L’Unione europea, da sempre orientata alla tutela del libero mercato e della concorrenza, negli ultimi anni ha dovuto mettere in discussione il proprio approccio dinnanzi alle sfide globali, a partire da un contesto di sempre più marcata competizione economica, tecnologica e geopolitica. Affianco a principi quali la libera circolazione dei capitali e la libertà di stabilimento, si è imposto un nuovo lessico, focalizzato in particolare sulla sicurezza economica. Da qui, la rilevante svolta tra il 2019 e il 2020, con l’entrata in vigore del regolamento sugli investimenti esteri 2019/452: una cornice comune, atta a monitorare gli investimenti extra-europei in grado di pregiudicare la sicurezza e l’ordine pubblico nel mercato unico, nonché a istituire una serie di meccanismi collaborativi tra Stati membri. Proprio di recente, è stata pubblicata la quarta relazione in materia di investimenti esteri. Prima di approfondire più nel dettaglio i cambi di paradigma che hanno segnato l’Unione europea in questa fase storica, ci si soffermerà sui principali profili emersi dalla relazione.
Una panoramica della quarta relazione FDI.
In primo luogo, va segnalato che ormai 24 paesi membri dispongono di un meccanismo di controllo degli investimenti esteri e i 3 rimanenti (Cipro, Croazia, Grecia) si sono comunque attivati per introdurlo. Il quadro generale dei controlli dei singoli Stati è rimasto di fatto stabile: il 56% dei casi (55% nel 2022) è stato soggetto ad un controllo formale. L’85% (86% nel 2022) è stato autorizzato senza condizioni. Il 10% (9% nel 2022) è invece stato sottoposto a determinate condizioni o prescrizioni. I veti si sono attestati, in linea con gli anni precedenti, all’1%. Per quanto riguarda il meccanismo di cooperazione europeo, nel 2023 sono state trasmesse in totale 488 notifiche da 18 Stati membri, rispetto alle 421 notifiche trasmesse da 17 Stati membri nel 2022, con alcune asimmetrie interne: 7 Stati membri, ossia Austria, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Romania e Spagna, coprono l’85% di tali notifiche, e quattro di questi il 69%. Nel 2023 la Commissione ha chiuso il 92% dei 488 casi valutati nella fase 1 (87 % nel 2022), mentre il restante 8% delle operazioni è passato alla fase 2, in cui sono state richieste informazioni supplementari allo Stato membro notificante. La Commissione ha emesso un parere per meno del 2% delle operazioni notificate. Nell’ambito delle operazioni giunte alla fase 2, il settore più coinvolto è quello manifatturiero, in particolare per quanto concerne i fattori legati alle tecnologie critiche, che ne occupano il 51%: tra queste, il settore delle attività connesse alla difesa ha concentrato il 26% dei casi; seguono il settore aerospaziale con il 22% e quello dei semiconduttori con il 17%; il restante 35% dei casi ricomprende altre tecnologie, tra cui figurano la cibersicurezza, l’intelligenza artificiale, le tecnologie nucleari, le biotecnologie e le nanotecnologie. Infine, per quanto riguarda i principali investitori, le sei giurisdizioni di origine più importanti sono gli Stati Uniti, il Regno Unito, gli Emirati arabi uniti, la Cina (compresa Hong Kong), il Canada e il Giappone. Nel complesso, trattasi di un quadro stabile, solo lievemente in crescita, senza però incidere sulla tendenziale apertura dell’Unione europea in materia di investimenti. Come si è arrivati, però, a tale quadro? Al netto dei numeri, quanto è stato profondo il cambio di postura delle istituzioni europee sulle normative protettive? Ripercorrere alcune tappe fondamentali degli ultimi anni può aiutarci a cogliere la portata di certi cambiamenti.
I cambi di paradigma e l’emblematico caso delle comunicazioni.
Già prima della pandemia e del conflitto ucraino, di fronte ad un panorama internazionale che andava raffreddandosi, ha cominciato a crescere, all’interno delle stesse istituzioni europee, la consapevolezza circa la fragilità strutturale dell’Unione. Indicativi sono in tal senso i diversi documenti pubblicati a partire dal 2017: tra i tanti, il “Documento di riflessione sulla gestione della globalizzazione” del 10 maggio 2017; quello “Accogliere con favore gli investimenti esteri diretti tutelando nel contempo gli interessi fondamentali” del 13 settembre 2017; e la Decisione della Commissione del 29 novembre 2017, istituente un gruppo di esperti in materia di controllo sugli IDE nell’UE. In altri termini, fermo restando il favor verso la globalizzazione e il libero mercato, comincia a svilupparsi un ragionamento strategico più affine a quello che da tempo informava il dibattito statunitense e focalizzato, in particolare, sulla necessità di difendere alcune imprese strategiche da acquisizioni predatorie in nome della sicurezza economica. Tra i fattori che più hanno stimolato tale riflessione, vi è stato sicuramente l’emergere delle tecnologie sensibili. In questo senso, un esempio calzante riguarda la cruciale tecnologia del 5G, per cui, con la Raccomandazione 2019/534, la Commissione europea aveva riconosciuto che il quadro legislativo tradizionale dell’Unione in tema di comunicazioni elettroniche – basato sulla concorrenza, la tutela del mercato interno e gli interessi degli utenti finali – per quanto solido, sembrava non essere più idoneo a fronteggiare il mutato contesto globale. Ed è proprio in materia di comunicazioni, con la sfida del 5G, che il cambio di atteggiamento delle istituzioni europee si fa più evidente.
Difatti, un esempio interessante, tra gli altri, è proprio quello relativo al caso italiano del controllo delle reti di comunicazione. Ai sensi dell’art. 2 del d.l. 21/2012, nella sua versione originaria, le stesse erano soggette al golden power secondo una disciplina meno rigida di quella prevista per i più delicati settori della difesa e della sicurezza nazionale (art. 1); ad esempio, nelle operazioni di acquisizione i poteri erano attivabili solo nei confronti di soggetti extra-europei. Ai fini dell’applicazione della disciplina erano necessari dei decreti attuativi e nel 2013, con lo spettro della vendita di Telecom da scongiurare, per le reti di comunicazione non erano ancora stati adottati. Così, con il dpcm 129/2013, il Governo ha fatto tempestivamente confluire nelle attività di rilevanza strategica per la difesa e la sicurezza nazionale (assoggettate ad una tutela più rigida, attivabile nei confronti di tutti gli operatori, italiani, europei e non) anche le reti di comunicazione. La risposta della Commissione europea non si è fatta attendere: con una nota di chiarimento del 25 novembre 2013, la stessa ha ipotizzato un possibile contrasto tra il dpcm e il principio di libera circolazione dei capitali, adducendo che il decreto «contiene una definizione molto ampia degli attivi strategici che copre potenzialmente la gestione e il funzionamento di quasi tutti gli impianti di comunicazione» e domandandosi quale fosse «il collegamento tra le attività nel settore delle comunicazioni incluse nel nuovo decreto e gli interessi essenziali di sicurezza che potrebbero essere seriamente pregiudicati». Ha fatto poi seguito l’immediata abrogazione del dpcm 129/2013 tramite la riorganizzazione attraverso appositi decreti attuativi dei diversi settori dell’art. 1 e dell’art. 2 del d.l. 21/2012, con le reti ricondotte nel raggio di quest’ultimo.
Con l’avvento del 5G e il profilarsi di una nuova stagione di competizione geopolitica e tecnologica, l’Unione europea – certo, sollecitata dagli Stati Uniti – ha cambiato completamente approccio, facendosi essa stessa promotrice di una campagna di sensibilizzazione verso i rischi insiti al 5G. Da questo punto di vista, la disciplina italiana introdotta nel 2019 con l’art. 1 bis, ove il 5G è accostato alla difesa e sicurezza nazionale, si inserisce perfettamente nel rinnovato contesto, senza più destare perplessità circa la compatibilità con l’ordinamento europeo. Altri tempi rispetto a quelli della saga della golden share o anche solo rispetto al 2013, ove la Commissione si chiedeva quale fosse il legame tra comunicazioni e sicurezza.
Conclusioni.
Questi sono giusto alcuni esempi emblematici delle tappe che hanno portato l’Unione europea non solo ad occuparsi direttamente di controllo degli investimenti esteri in sede di regolamento 2019/452, ma anche a sollecitare gli Stati membri, nei diversi momenti di crisi, ad avvalersi delle proprie normative protettive, come nella comunicazione del marzo 2020 in fase pandemica o quella dell’aprile 2022 dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Vi è di più: il tema è ormai così centrale che la stessa Unione ha avviato, a gennaio 2024, un processo di riscrittura del regolamento 2019/452, sì da potenziarlo, anche in un’ottica di maggiore coordinamento intra-Ue; in questo senso, si va dalle proposte più coraggiose, come il cambio di base giuridica, ad una individuazione di un raggio di tutela minimo in alcuni settori di particolare interesse strategico per l’Unione, dall’estensione dell’applicazione ad investitori stabiliti in Ue ma controllati in ultima istanza da soggetti extra-Ue, ai miglioramenti sotto il profilo procedurale, in particolare per quanto concerne il coordinamento tra le istruttorie dei singoli paesi membri.
Una sfida importante, non priva di contraddizioni, ma che testimonia il nuovo approccio dell’Unione europea in questa fase storica. I principi fondamentali rimangono, nonché la generale apertura del mercato unico, come confermato anche dalla quarta relazione FDI. Ma l’Unione è stata costretta dalle sfide di questi ultimi anni a declinare la propria architettura in modo diverso, rivisitandola alla luce di altre categorie, a partire da quella della sicurezza nazionale ed economica. L’esempio delle comunicazioni è emblematico. Sul punto, va anche specificato che l’obiettivo dell’Unione europea sarebbe, invero, piuttosto chiaro, ossia lavorare su uno scudo comune verso l’esterno, ma con il mercato interno che deve rimanere libero. Ed è forse questo il tema più delicato: la discrasia tra tale ambizione e la tentazione degli Stati membri, che non tende a sopirsi, di controllare anche le operazioni intra-Ue. Una contraddizione che accompagnerà il processo di riscrittura del regolamento 2019/452.